Scheda del libro
Molti sono gli elementi che determinano la straordinarietà e l’originalità di questo libro. Primo fra tutti il valore di una grande testimonianza umana, poi il fatto che è stato scritto da una giovane cerebrolesa, autistica ed affetta da disprassia (la difficoltà di comandare il corpo secondo le intenzioni del cervello) che non parla e solo da pochi anni ha imparato, con metodo sperimentale e d’avanguardia a comunicare esclusivamente attraverso la scrittura.
Prima era il silenzio e l’incapacità totale di partecipare alla vita se non in qualche piccola forma. Straordinaria, inoltre, è stata la scoperta che dietro alla protagonista c’era una persona nascosta, dotata di tutti gli elementi e forse di più, che rendono grande una persona, una persona che ci ricorda come si debba realmente andare oltre l’apparenza e l’abbandono di ogni pregiudizio. E dietro a tutto questo, sapientemente sorretto dalla qualità dei sentimenti, ironia, intelligenza, amore per la vita, desiderio di dire “in silenzio” che si esiste anche senza “voce” e riuscire lo stesso a “gridarlo”.
Curriculum autrici
Scilla Raffin
E’ nata a Pordenone il 21 settembre 1974. Ancora piccolissima ha manifestato il suo handicap di cui l’aspetto principale è la mancanza della parola e la difficile gestione della sua persona. Ha portato a termine la scuola dell’obbligo solo in quanto tale. A 22 anni, per puro caso, affrontando un test per la Comunicazione facilitata ideato da una studiosa australiana per le persone cerebrolese, si è scoperto che sapeva leggere e scrivere e che non era mai riuscita a comunicarlo. Con questo metodo, che ha rivoluzionato tutta la sua vita, oggi Scilla comunica con il mondo esterno, pur se esclusivamente attraverso la scrittura. Ogni anno da allora vengono edite le sue conversazioni scritte e raccolte in una collana di Quaderni ora sorretti dall’Associazione culturale “via Montereale” di Pordenone.
Ludovica Cantarutti
Giornalista, operatore culturale e consulente nel campo della comunicazione. Ha lavorato per varie testate fra cui Il Sole 24 ore, La Nazione, Il Gazzettino. E’ autrice di una dozzina di libri di poesia, teatro, saggistica e narrativa. Il suo ultimo volume “I Signori della Memoria”, dove riscopre in modo originale alcuni personaggi francesi dell’Ottocento, è stato presentato a Parigi nel 1998. Ha lavorato per la RAI. Materiale esplicativo della sua attività di fotografa, invece, è conservato al Kunsthistorisches Istitut di Firenze.
di Ludovica CantaruttiCapitolo 1
Scilla è nata a Pordenone il 21 settembre 1974 ed a undici mesi si scoprì, che c’era qualcosa che non andava. Quel qualcosa era una lesione cerebrale le cui cause sono rimaste poco chiare anche per qualche luminare. Quando venne il pediatra, per una di quelle visite usuali che il buon senso suggerisce quando si hanno neonati in casa, per prima cosa la sedette sul letto, a gambe divaricate, come quando si appoggia un libro aperto su di un piano. Ma lei non rimase seduta, cadde invece in avanti come se la schiena non la reggesse. Questo fu il segnale, unitamente ad un nistagmo molto forte. Con cautela, ma con fermezza il dottore mi disse che era opportuno procedere a degli accertamenti senza attendere altro tempo. Così iniziò la prima corsa all’ospedale della città dove in poche ore fecero a Scilla tutte le analisi del caso. Alla fine furono il pediatra e il neurologo a consigliarmi un urgente ricovero nella più dotata clinica svizzera, la Kinderklinik di Berna, tempio della ricerca e della sapienza sull’infanzia. Questi due medici furono i primi a darmi una diagnosi. Nessuna malattia ereditaria ma probabilmente un’encefalite senza febbre causata da un vaccino. Quest’ultima parte della diagnosi, tuttavia, non fu mai messa per iscritto. Lo Stato italiano non riconosce i danni da vaccini.
La prima diagnosi, diagnosi che fu ampliata una volta eseguiti gli accertamenti a Berna. I pareri svizzeri, attribuivano il male di Scilla a qualche oscura condizione prenatale che l’aveva trovata priva di difese immunitarie e resa perciò vulnerabile. Forse entrambi i pareri erano da prendere in considerazione e da amalgamare e nel corso degli anni molto spesso ho messo assieme queste cause che hanno impedito ed impediscono tuttora a Scilla di parlare, cioè di usare il linguaggio verbale, e che le hanno innestato anche una forma di autismo e fino all’attuale disprassia, cioè al mancato controllo da parte del cervello di come il corpo si debba muovere e perciò non riesce a dargli i giusti comandi.
Queste tre cause, lesione, autismo e disprassia e loro disastrose conseguenze hanno determinato la nostra esistenza quotidiana, giorni mesi e anni.
Che cosa volesse dire “autismo” l’ho imparato più tardi, quando di questa malattia (dall’inglese “aut”, cioè fuori, coniata dal suo scopritore, l’americano Leo Kanner, nel 1949) si faceva in Italia solo qualche ipotesi intorno alla fine degli Anni Settanta.
Tenere a bada nell’animo, già sconvolto da realtà inequivocabili, ulteriori altre ipotesi di possibili disturbi sconosciuti e pertanto di ancora più difficile gestione, è una delle prove maggiormente dolorose dell’esistenza, soprattutto quando si tratta delle persone che si amano di più.
Solo molto tempo dopo ho collegato la teoria sullo stato influenzale della madre al quarto-quinto mese di gravidanza come causa di una possibile lesione per Scilla, sfociata nell’autismo e nella conseguente sua impossibilità di comunicare.
Come si comporta un bambino che ha una lesione cerebrale ed è anche autistico? Scilla non manifestava segni di sofferenza nel suo bellissimo viso, li manifestava attraverso una irrequietezza abnorme, di giorno e di notte. Non parlava e non dava segni di alcun tipo di comprensione o di recepire qualcosa. Mangiava voracemente ed era refrattaria a qualsiasi contatto sensoriale. Per me era semplicemente impossibile parlare con chicchessia, dedicarmi ad un lavoro di casa che potesse solo per pochi minuti distrarre lo sguardo da lei che andava controllata ogni minuto, specie quando, solo intorno ai due anni e mezzo, imparò lentamente a camminare, senza essere mai andata prima a carponi, percorso anomalo di per sé.
C’era una domanda che nei primi anni rivolgevo quotidianamente, in modo incalzante a tutti i medici che incontravo e cioè che ne sarebbe stato di Scilla? Cosa diceva la scienza a tale proposito? Cosa potevano assicurare le statistiche del caso? Cosa avrebbe fatto da grande? Quale sarebbe stata l’evoluzione di questa tremenda diagnosi della quale fui informata dai medici svizzeri senza tanti preamboli con un’attitudine alla “verità” da parte loro per me assolutamente nuova e crudele, senza un minimo atteggiamento di comprensione e umanità. Per assorbirla mi ci sono voluti alcuni anni tanto che, per esempio, per moltissimo tempo non sono riuscita a parlare di quando , nel grande tempio della medicina infantile di Berna, Scilla ed io finimmo in sala di lezione della clinica universitaria.
Fare una lezione portando Scilla come esempio di una malattia irreversibile e dove non c’era più niente da fare, come poteva essere possibile? Invece fu così. Entrambe sconvolte, ferite, sopraffatte dal dolore nelle sue tante sfaccettature che non finiva di sorprenderci, dalla dignità spazzata via dalla pubblica esposizione della nostra tragedia, affrontammo quel giorno abbracciate come unico conforto allo sconvolgimento interiore, non sapendo ancora fino in fondo cosa doveva riservarci questa enorme prova che ci aveva completamente travolte.
E dopo la diagnosi ancora la domanda assillante, ossessiva. Che ne sarà di Scilla? Nessuno mi ha mai risposto, nemmeno il più “evoluto” dei medici.
Ero solo l’inizio di un decalogo che imparai rapidamente. Ogni handicap fa capo a sé. Nessuno si prende la responsabilità di compromettersi con la speranza.
Ma ci fu un momento, durante quel soggiorno di dieci lunghissimi, strazianti giorni di permanenza a Berna, nel quale accadde qualcosa di diverso. Una mattina andai da Scilla. Era coricata nel suo lettino bianco. Indossava un grazioso pigiamino di spugna blu ed i bordi neri. Le gambette belle e dritte erano lasciate scoperte dai pantaloncini corti. Aveva appena finito l’ennesimo esame ed io la presi in braccio per baciarla. Era tenera e profumata, odorava d’innocenza come chi è al di sopra di tutto. Nel sollevarla mi guardò. Improvvisamente per un attimo il nistagmo si fermò ed i suoi occhi mi entrarono nella carne come uno spillo. In fondo allo sguardo vidi la sua intelligenza e pareva volesse dirmi “Mamma io ci sono”. Quello sguardo dapprima mi ha stupito e poi mi ha accompagnato per tutto il resto della mia vita. Quello sguardo mi ha dato la forza di lottare.
La grande lezione della vita era iniziata. Imparai per prima cosa, e per sfuggire all’ulteriore dolore che mi procurava l’insicurezza di domande senza risposta, a diventare io stessa il medico di Scilla alla ricerca così di almeno qualche semplice certezza, pur elementare che fosse. Ma questo avvenne qualche anno più tardi.
Imparai il più presto possibile a sopravvivere a tutte le affermazioni dei dottori, a contestare talvolta il loro modo di fare, ma soprattutto a sventolare una piccola, nascente bandierina del diritto alla dignità della persona “diversa” anche per chi non aveva voce ed era pertanto destinato ad essere travolto se non calpestato. Lo imparai presto cercando talvolta rabbiosamente nel fondo di me stessa di analizzare tutto del mio modo di sentire e pensare, tutte le ansie, le insofferenze, i desideri, tutte le virtù che sarebbero servite a salvarmi dal dolore e dalla disperazione di non poter fare nulla perché mia figlia potesse essere come gli altri bambini, quelli che parlano, che giocano, che sorridono, che chiamano per nome, che pretendono, che vogliono, che ti rispondono, che ti mandano a quel paese. Io non potevo avere nulla di tutto questo.
Ed è stata per me una lezione universitaria.
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